La Via Crucis di Comano

Il commento artistico

La consapevolezza, uno dei caratteri specifici e meno compresi dell'opera di Nag Arnoldi è il porsi come controtendenza rispetto alla prassi dell'arte contemporanea. Già il suo punto di partenza, l'ambientazione tematica, offre un registro dialettico e al fine drammatico alla sua ampia e riconosciuta produzione pittorica e scultorea, nell'attimo stesso in cui si pone su un piano di alterità nei confronti di scelte artistiche tutto sommato conformiste. L'arte di questo fine secolo e millennio si è posta come referente il tema della fine, dell'ultima soglia prima di una fatale apocalisse, del nulla, nemmeno il futuro, dopo il presente. E tutto vi si adegua. Trionfa così la prospettiva della morte come impossibilità assoluta di vita, con tutto il corollario di non-incontri, solitudine, incomunicabilità, decomposizioni... pessimismi senza ritorno. L'arte contemporanea si vuole e si accetta come paradigma del limite oltre il quale c'è il nulla. Nel migliore dei casi si trova nel tunnel dürrenmattiano senza sbocchi.

Poche, appunto, le controtendenze. Eppure, scrive Eduardo Chillida, “il limite è il vero protagonista dello spazio, come il presente, altro limite, è il vero protagonista del tempo”. Spazio scultoreo, cosmico, interiore. Quindi anche questa soglia sul non-essere ha in sé un'accezione dialettica e dinamica, che prelude a forme di possibilità, di esistenza. Anzi è essa stessa vita. Proprio la spinta vitalistica è il motore primo della scultura di Nag Arnoldi, anche in questo racconto d'una morte.

Per Nag Arnoldi il limite non solo è invalicabile ma addirittura proporre la possibilità della comunicazione della vita. Lo è nella precedente sua opera, in particolare nel Sacro dove anche l'apparentemente conclusiva e invalicabile apocalisse diventa argomento attivo di indagine; lo è in questa Via Crucis dove recupera in filigrana la traccia filologica della passione di Cristo come dono. “Il padre non ha risparmiato suo Figlio, ma l’ha dato per tutti noi” (S. Paolo, Rm 8,32). Non soltanto è stato consegnato (e non abbandonato) dal Padre, ma anche lui "ha dato se stesso per me" (Gal 2, 26). Nello svolgersi di questa dedizione il Figlio non è soltanto oggetto ma anche soggetto. La sua è stata una passio activa, una via seguita in piena consapevolezza, una morte che egli accetta nonostante l'umanamente comprensibile disperazione. Infatti secondo l'inno cristologico ripreso da San Paolo (Fil 2) L'autodonazione del Figlio consiste nel suo spogliarsi dell'immagine divina, nel suo assumere la figura di servo, nel umiliarsi e rendersi "obbediente fino alla morte di croce".

Il Cristo di Nag Arnoldi viene figuralmente spogliato, irriso e umiliato sino all'estrema solitudine, quella della morte. Ma, di formella in formella, lungo il percorso della Passione si staglia e nel sottofondo si perfeziona la profonda comunione tra le volontà del Padre e del Figlio. Fino al momento centrale del dramma, quello della più profonda separazione culminante nella "notte oscura" della morte di maledizione sulla croce, che è intrinsecamente il momento della più totale e profonda adesione d'intenti. Questo avviene anche sul piano iconografico in una sequenza figurativamente ascensionale verso il Golgota e spiritualmente discensionale fino alla morte, la Redenzione, cui segue la necessità esplosiva della Resurrezione. E avviene soprattutto nell'intreccio di comunicazioni: Nag Arnoldi mette in scena una coralità compositiva in cui l'indicenza del segno non è di tipo analitico, ma è volta a conferire la massima tensione spirituale ad una narrazione nota negli accadimenti esteriori.

Dalmazio Ambrosioni